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Femminicidi: lo sguardo, la rabbia, il dolore di chi resta

Il libro di Stefania Prandi "Le conseguenze" racconta le storie delle madri, dei figli, delle famiglie delle donne assassinate. E il loro impegno perché non si ripeta ancora. [di Federica Ginesu]

Femminicidi: lo sguardo, la rabbia, il dolore di chi resta
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Federica Ginesu Modifica articolo

18 Novembre 2020 - 23.18


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«Il femminicidio è una bomba atomica. Le famiglie si distruggono. È molto difficile riuscire a capirsi nel dolore che non finisce mai. Ci sono rabbia, sensi di colpa e una forma di depressione invisibile e costante. Io ho perso tutto, non ho più niente».

Vera Squatrito è una madre che affronta ogni giorno un dolore indicibile. Nel 2015 la figlia Giordana Di Stefano è stata uccisa a coltellate dall’ex fidanzato Luca Priolo. Dopo che si erano lasciati, lei lo aveva denunciato. Lui la perseguitava. Con messaggi, chiamate pedinamenti fino a quando una sera l’ha aspettata nel giardino di casa. È sbucato dal buio, è entrato nella sua auto e l’ha colpita più volte. Giordana aveva una bimba e, ora che non c’è più, è sua madre a crescere con amore la nipotina, privata per sempre dell’abbraccio della mamma.
Squatrito è una delle madri che la giornalista Stefania Prandi ha incontrato e a cui ha dato voce nel suo ultimo lavoro “Le conseguenze. I femminicidi e lo sguardo di chi resta”.

 

Reportage e mostra fotografica, ora anche libro inchiesta necessario, edito da Settenove, in cui l’autrice, con rispetto e coraggio, indaga la tragedia del dopo, mette insieme i dati e racconta cosa succede nelle famiglie che affrontano la lacerazione incolmabile provocata dal femminicidio.

 

Il libro di Prandi è un grido di verità a lungo sottaciuta, poco considerata.

È un’attenta analisi sull’ingiustizia che causa la violenza di genere, un mosaico di testimonianze che toccano il cuore e parlano di resistenza infinita, di dolore profondo, di voci che infrangono il silenzio. Sono madri, padri, sorelle, figli. Sono le persone che restano e cercano di sopravvivere.

Tutti e tutte attraversano una sofferenza atroce, ognuno di loro rompe l’oblio, chiede di non essere più invisibile, racconta una storia che deve essere nominata e ricordata.

 

«Il lavoro che ha realizzato Stefania Prandi è qualcosa che non è stato mai tentato in Italia: raccontare la violenza della rimozione pubblica, la solitudine, il lutto delle famiglie delle vittime di femminicidio» scrive nella prefazione al libro Chiara Cretella, assegnista di ricerca dell’Università di Bologna, esperta di questioni di genere.

 

Non è solo la narrazione di un dramma incommensurabile, quello della perdita di una figlia, di una mamma o di una sorella morte per femminicidio. È anche un’indagine che parla delle conseguenze, pesanti come macigni che devono fronteggiare i familiari delle donne uccise.

A partire dalle cronache tossiche che non ricorrono al termine femminicidio, parola importante che individua la radice di questo fenomeno e la spiega. Si verifica quando una donna viene uccisa da un uomo, quasi sempre un partner o un ex partner o una persona a lei familiare, che ha calpestato la sua libertà di essere, agire, esistere.

 

Sono le stesse narrazioni che puntano l’attenzione su chi uccide, specchio di una società  che trova per l’assassino giustificazioni attraverso parole come “raptus” o “dramma della gelosia” stilando per il femminicida profili che cercano attenuanti, mentre la vittima scompare o è marginalizzata, a volte non è chiamata neanche per nome.

 

La vita delle donne uccise è come scannerizzata, alla ricerca di qualcosa per cui possano essere, secondo i paradigmi sessisti e misogini della nostra società, biasimate e colpevolizzate.

 

I pregiudizi non si fermano, colpiscono anche i familiari delle donne uccise:

«Sono guardata con una certa diffidenza, spesso malcelata. È come se non avessi educato bene mia figlia, non fossi riuscita a percepire il pericolo incombente» dice a Stefania Prandi Giovanna Ferrari, madre di Giulia Galiotto, uccisa dal marito nel 2009. Un’esperienza comune tra le voci del libro, capace di infliggere ulteriore dolore.

 

È una sequela di sofferenze che prosegue per i familiari nei tribunali in cui entrano gli stereotipi patriarcali “se l’è cercata” o “era una poco di buono” e continua, ancora, con richieste da parte degli assassini di infermità mentale, le aggravanti non riconosciute dai giudici, i riti abbreviati concessi, gli sconti di pena. Una lotta costante, senza tregua. Processi su processi per avere giustizia, ottenere i risarcimenti e nel frattempo affrontare l’assenza, il dolore del vuoto della perdita.

 

Le conseguenze dei femminicidi sono ancora più feroci quando ci sono dei bimbi.

 

Se non vengono uccisi dai loro padri e sopravvivono, non solo perdono le proprie madri, ma possono aver assistito ai massacri o erano presenti durante gli episodi di violenza prima del femminicidio, che non è mai un evento improvviso, ma l’apice di una lunga serie di maltrattamenti. Traumi enormi che li segnano per sempre e per cui hanno bisogno di tante cure e di supporto psicologico per imparare a convivere con il dolore e cercare di elaborare quanto è accaduto nelle loro vite. Le terapie costano, servono risorse economiche e in molti casi le spese sono a carico dei familiari.

 

Accedere al fondo per gli orfani e le orfane di femminicidio, dicono i testimoni del libro, è complicato e la burocrazia di certo non aiuta.

«Per loro spendiamo 3600 euro al mese. Io e mia moglie non ci compriamo niente nemmeno un paio di scarpe nuove, non usciamo mai. È un sacrificio continuo. Se non ci fosse stato il nostro amore, sarebbero finiti in una casa famiglia, per un costo di 150 euro di media al giorno che peserebbe sulla collettività. È a noi dallo Stato non è riconosciuto praticamente niente» è lo sfogo di un nonno che si prende cura dei suoi nipotini che non hanno più la loro mamma uccisa dal loro padre.

 

I femminicidi non sono eventi casuali. Giulia Giornaliste, in una lettera aperta indirizzata a tutte le redazioni dei giornali perché si impegnino a elaborare narrazioni corrette della violenza, sottoscritta anche dalle Commissioni Pari Opportunità della FNSI (Federazione Nazionale Stampa) USIGRai e del Consiglio generale dell’Ordine dei Giornalisti, ha di recente ricordato che non sono meri fatti di cronaca. I femminicidi sono un fenomeno strutturale della nostra società. Accadono in tutte le regioni d’Italia, senza distinzione di ceto sociale o livello di istruzione. Sono generati dalla cultura del possesso e del dominio che nega alle donne i loro diritti e lo status di persone.

 

«In Italia – scrive Prandi – viene assassinata, in media, una donna ogni sessanta ore e mentre il numero degli omicidi diminuisce, quello dei femminicidi in proporzione, aumenta e rappresenta quasi il 40% del totale».

Il femminicidio ha ripercussioni su tantissime famiglie. La violenza domestica e suoi esiti feroci non possono essere più considerati un fatto privato. 

 

Il dolore di chi resta è immenso, ma non è sterile. Prandi racconta di una sofferenza che mette in moto iniziative, presidi, petizioni, conferenze nelle scuole. È il motore di un’indignazione che deve diventare universale, che può scuotere il mondo e lo può cambiare.

Come scrive nella postfazione del libro Patrizia Romito, docente di Psicologia all’Università di Trieste, dove tiene anche insegnamenti sulla violenza sulle donne e sui minori: «Riconoscersi il diritto di essere in collera e manifestarla è per le donne una conquista: dobbiamo ricordare che in queste circostanze è legittima e può e deve essere una leva per affinare il pensiero e sostenere l’azione».

 

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