Mediterraneo, terra delle schiave dell'oro rosso | Giulia
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Mediterraneo, terra delle schiave dell'oro rosso

L'articolo della 27esimaOra sul viaggio da Agadir a Ragusa tra violenza, sfruttamento e omertà nel reportage di Stefania Prandi [di Giovanna Pezzuoli]

Mediterraneo, terra delle schiave dell'oro rosso
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16 Aprile 2018 - 15.20


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L’oro rosso sono fragole, lamponi, mirtilli, ciliegie e pomodori raccolti e confezionati da lavoratrici che hanno nomi come Kalima, Rachida, Elena, Nadina, Gaia, Menna, Fatima… Attraverso le loro voci si snoda il racconto di una violenza che «fatica a essere nominata», tra ricatti e ritorsioni, turni estenuanti e paghe ridotte, in un crescendo di soprusi che spesso arriva alla molestia sessuale e allo stupro. Da Palos de la Frontera, il paese dell’Andalusia da cui salpò Cristoforo Colombo con le sue tre caravelle, a Vittoria, cittadina in provincia di Ragusa; da Andria, sul pendio inferiore delle Murge, a Souss-Massa, sulla costa atlantica del Marocco, viene alla luce un mondo sommerso e dimenticato, dove la voglia di resistere e il coraggio sconfiggono la paura delle punizioni e l’inutilità delle denunce.

Seguiamo passo passo i rischi corsi e gli ostacoli incontrati da Stefania Prandi, giornalista e fotografa, che ha realizzato questo coinvolgente e documentato reportage, con oltre centotrenta interviste a braccianti, sindacalisti ed esponenti di associazioni. Oro rosso. Fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel Mediterraneo (Settenove edizioni) è la sintesi di un lavoro di ricerca e di inchiesta sul campo: prima tappa, Palos de la Frontera, il più grande giacimento di fragole e frutti rossi d’Europa con diecimila ettari di serre che si stendono a perdita d’occhio e un fatturato di oltre trecentoventi milioni di euro.

A rompere il silenzio è Kalima, di origine marocchina, arrivata con il contratación en origen, il programma per importare manovalanza stagionale. Kalima è andata al vicino commissariato di Moguer per denunciare le ripetute violenze di Abed, il supervisore marocchino che dorme all’interno della proprietà, portando con sé il referto medico della ginecologa. Nessuno la protegge, né la scorta; le dicono che sarà un caso difficile da vincere perché non ci sono prove. Ora è tornata in Marocco, mentre Abed continua a lavorare nella stessa azienda agricola. Nelle serre c’è una dinamica da kapò: alcune donne, investite di responsabilità informale dai proprietari, controllano le altre: chi parla viene considerata una «spiona» e viene punita, mentre le istituzioni voltano la testa dall’altra parte, così come le Forze dell’Ordine («ho trovato un muro di gomma», scrive Stefania).

Ma un dato che aiuta a inquadrare la situazione è l’aumento del tasso di interruzioni di gravidanza nella zona, con il 90% di richieste fatto da immigrate. Poi, ci sono i fumi chimici del polo industriale di Huelva: a ridosso delle fabbriche, nella «Casa con le mosche», che per il tempo della raccolta ospita marocchine, polacche, rumene, bulgare. Rachida da undici anni va e viene dal Marocco alla Spagna. Mostra la patina scura, lo strato creato dall’inquinamento che ricopre ogni cosa. «Ce lo troviamo addosso, ci rovina… prendiamo quattro antiinfiammatori al giorno perché altrimenti non sopportiamo il mal di testa».

Dalla Spagna all’Italia, dove vivono le braccianti dei campi di Vittoria, una miriade di serre con i pomodori ciliegino prodotti da circa tremila piccole e medie aziende ed esportati nel Paese e all’estero. Vi lavorano cinquemila rumene che guadagnano tra i cinque e i dieci euro al giorno meno degli uomini, e basta una lamentela per essere cacciate, esattamente come a Palos de la Frontera. Elena, madre di un bambino di dieci anni, ha subito violenze terribili da parte del suo capo e, grazie a una volontaria della parrocchia, ha trovato il coraggio di denunciarlo e di andarsene da quell’inferno. Ma l’unica prova era la sua parola e così il suo ex padrone è ancora in giro e l’ha minacciata. Ora lei non si fida più di nessuno, neanche dei volontari delle associazioni che alla fine spariscono tutti.

A spezzare l’omertà diffusa, rendendo pubblici i crimini e la dinamica del ricatto, è stato per primo il parroco don Beniamino Sacco, che vive da oltre trent’anni a Vittoria, ma il ritornello di sindacati e associazioni a cui si rivolge Stefania è sempre lo stesso: «non so come aiutarla!». Finalmente, grazie a un operatore suggerito dall’associazione Prometeo di Ragusa, riesce a continuare l’indagine: incontra Nadina e Tulipa due ventenni sposate che lavorano senza contratto e sono state più volte molestate. La figlia è rimasta con la nonna in Romania, troppo rischioso portarla qui, del resto nessuno dei bambini incontrati da Stefania studia regolarmente e soprattutto le bambine, che restano sole mentre i genitori vanno al lavoro, non sono al sicuro. Sono poche le azioni intraprese per migliorare le condizioni delle lavoratrici; secondo i sindacati le donne rumene ricevono un terzo di quanto prevede il contratto collettivo nazionale. Dovrebbero guadagnare cinquantasei euro per otto ore di lavoro.

Petra ha una figlia adolescente e vive a Scoglitti, poco distante da Vittoria: finalmente ha trovato un padrone corretto ed è rimasta otto anni con lui. «Peccato che quando sono rimasta incinta, mi ha licenziato. Adesso ho un bel bimbo e sono disoccupata. Non voglio essere triste ma per noi non c’è giustizia». Anche Jasmina si è ribellata al suo datore di lavoro che le aveva messo le mani addosso, e si è ritrovata da un giorno all’altro sulla strada con il marito e i due figli. Chi reagisce, ne paga le conseguenze, in Sicilia come in Puglia, dove si coltivano il 68 per cento del totale italiano dell’uva da tavola, il 35 per cento di pomodori e olive e il 30 per cento di ciliegie. Qui ci sono i caporali a controllare le braccianti e a compiere loro stessi gli abusi. Alessia, sposata con due figli, da dieci anni vive ad Andria e fatica a trovare lavoro: «Se si sparge la voce che sei una persona seria, non ti cercano facilmente per un contratto. Io lavoro a periodi… Questo è il destino di chi non accetta di fare certe cose».

Denunciare le molestie è un miraggio: a Taranto nel 2011 si è svolto il processo Dacia, dopo che le Forze dell’Ordine avevano scoperto centinaia di rumene costrette a prostituirsi per lavorare con stupendi da fame. Ma nonostante il sindacato Flai Cgil Bat (Barletta Andria Trani) si sia costituito parte civile, i diciassette caporali arrestati sono stati in seguito rilasciati e l’inchiesta verrà probabilmente archiviata perché non sono più rintracciabili le testimoni. Annalisa, come molte altre italiane della zona, è diventata bracciante agricola giovanissima, a 17 anni. Sulla busta paga venivano dichiarati milleduecento euro, ma in realtà lei ne riceveva novecento, certi mesi anche meno. Quando viene licenziata, salta fuori che non le hanno pagato nemmeno i contributi. Decide di fare vertenza con altre colleghe e da allora non ha più trovato un posto con un contratto. «Il mio capo, oltre a essere un farabutto, che ci ha messo nei guai con i contributi, era un porco. Si avvicinava, mi metteva le mani addosso, mi diceva cose sporche…», racconta.

Secondo Maria Viniero, che è stata bracciante prima di diventare rappresentante sindacale, il problema è che le donne in agricoltura sono considerate tutte prostitute. La colpa ricade su di loro, soprattutto se sono single, separate o divorziate. «Su dieci datori di lavoro della nostra zona, non dico sette, ma cinque ci provano e pesantemente, più con le straniere che con le italiane perché lo ritengono quasi uno ius primae noctis odierno», aggiunge Rosaria Capozzi, responsabile del progetto Aquilone di Foggia. Gaia, nata e vissuta in provincia di Bari, una figlia di ventidue anni che va all’università, non voleva diventare l’amante del padrone e ha pagato il rifiuto con anni di soprusi e ripicche. Ha imparato a difendersi adottando un comportamento mascolino, ma deve sempre lottare perché è una stagionale, undici ore di lavoro al giorno, e non ci si può permettere di stare male.

Un passo contro lo sfruttamento è stato fatto con l’approvazione della legge penale contro il caporalato, nell’ottobre del 2016, che inasprisce le sanzioni per i caporali e introduce la responsabilità per i datori di lavoro. Il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro viene punito fino a sei anni di carcere, che possono diventare otto in caso di violenza o minaccia. Un provvedimento sollecitato anche dalla tragica morte di Paola Clemente nel luglio del 2015: prendeva l’autobus ogni notte alle tre e mezzo dal suo paese, San Giorgio Jonico, per raggiungere Andria, a centosessanta chilometri di distanza; lavorava fino alle tre e mezzo del pomeriggio, riprendendo l’autobus per altre due ore. È morta a quarantanove anni per un attacco di cuore: a lei sono stati dedicati un libro (Morire come schiavi. La storia di Paola Clemente nell’inferno del caporalato di Enrica Simonetti) e un cortometraggio (La giornata di Pippo Mezzapesa). Dopo la legge, sono state aperte varie inchieste, una delle quali partita grazie alla denuncia di una donna picchiata per avere chiesto la regolarizzazione del contratto: in una delle conversazioni registrate, un caporale dice che alle braccianti, definite femmine, mule e capre, «servono sesso e botte per essere messe in riga, altrimenti non imparano».

Ultima tappa di questo viaggio scioccante è Souss-Massa, a un’ora di distanza da Agadir, meta del turismo occidentale all inclusive. È la più grande area del Marocco coperta da serre, destinata alla raccolta di ortaggi e frutta per il mercato estero; ogni anno vengono prodotti seicentocinquantamila tonnellate di pomodori perlopiù in grandi aziende gestite da spagnoli, francesi e olandesi. Le lavoratrici, che provengono nella maggioranza dall’Atlante marocchino, sono preferite in quanto non sono esigenti e non si ribellano. In particolare le mère célibataire, ovvero coloro che hanno avuto un figlio al di fuori dal matrimonio, stigmatizzate dalla società. Hafida e Nasma hanno entrambe 25 anni e raccolgono pomodori e fagioli: raccontano di venire continuamente insultate e angariate, mentre ogni scusa è buona per licenziarle. Le molestie sono all’ordine del giorno. «Succede sempre, a tutte. I nostri mariti non lo sanno, non possiamo raccontarglielo. Forse penserebbero che è colpa nostra, forse ci proibirebbero di lavorare. Ma noi abbiamo bisogno di quei soldi».

Rispetto a dieci anni fa c’è stato un miglioramento, dice il segretario dell’Umt (Union marocaine du travail) e si comincia a parlare di congedo per maternità, differenze salariali con gli uomini, e aumento di donne in posizioni di comando. Denunciare è importante se si vogliono ottenere dei diritti: sui tavoli dell’ufficio dell’Amdh (Association marocaine des droits de l’homme) ci sono spugnette d’inchiostro che servono alle donne per firmare i documenti con l’indice. «Usiamo questo metodo – spiegano – perché, quando tornano la volta successiva, non possono ritrattare quello che hanno detto».

Menna è stata molestata dal suo supervisore, che era un sindacalista e ha sostenuto che lei si era inventata tutto. La polizia e il sindacato non hanno fatto nulla sostenendo che era un suo problema. Alla luce di questa esperienza, ha deciso che non metterà mai più piede in un campo: da pochi mesi ha iniziato ad andare ad Agadir due volte la settimana per fare disegni con l’henné alle turiste. Non ha un guadagno regolare, ma almeno non ci sono capi. Nonostante l’ingiustizia diffusa, le marocchine non restano silenziose e hanno anche avuto il coraggio di esporsi mediaticamente, come Hajar al-Korgi, un’ex raccoglitrice di fragole del Nord del Marocco, che ha raccontato in un video le condizioni delle braccianti costrette a lavorare oltre dodici ore al giorno e a nascondersi se arriva un’ispezione. Secondo un recente rapporto solo nel 2013 ci sono state millenovecentodieci violazioni del codice del lavoro, incluse molestie, stupri e licenziamenti senza giusta causa. Persino Fatma, che porta un niqab marrone per nascondere la nuca e il volto, è stata molestata. Lei, come tutte le altre braccianti, sogna un lavoro diverso per le figlie e si impegna per farle studiare, ma per la maggior parte lo scatto sociale resta un miraggio.

In tutti i luoghi dell’inchiesta, conclude Stefania Prandi, è radicata l’idea che per ottenere e mantenere il posto di lavoro si debba accettare uno scambio sessuo-economico, come viene definito dall’antropologa Paola Tabet: si deve cioè offrire sesso in cambio di una ricompensa, che nei casi analizzati consiste semplicemente nel poter lavorare. «Una regola non scritta, sottesa, un tabù, una realtà reiterata e silenziosa, sotto gli occhi di tutti, spacciata per normale».

 

L’articolo di è uscito in data 15 aprile su La 27esimaOra del Corriere.

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