Ho letto su The Telegraph che per le popstar inglesi è inopportuno dichiararsi femministe.
È successo che durante un’intervista telefonica all’ultima star di X-Factor (edizione inglese) il suo addetto alle public relation le abbia impedito di rispondere alla domanda ‘Lei si considera una femminista?’.
Ho letto che l’intervistatrice (Emma Barnett, della sezione ‘Donne’ della testata) aveva posto una serie di domande di vario genere alla neo-celebre diciassettenne Ella Henderson e che ogni risposta della giovane era stata preceduta da una consultazione con il suo addetto stampa.
Alla domanda sul sentirsi femminista, l’iracondo pi-erre della Henderson ha afferrato la cornetta urlando che la cantante mai avrebbe risposto a quella che egli, evidentemente, considerava una domanda pericolosa per l’immagine della sua cliente. Diciamo meglio: temeva che la risposta fosse pericolosa per l’immagine della giovane star.
La giornalista, nell’articolo in cui narra della vicenda, consiglia alla Henderson di sbarazzarsi del suo addetto stampa, perché costui la danneggia nella sua indipendenza di pensiero, obbligandola al rinforzo coattivo di stereotipi dannosissimi per le donne e per la società.
In questa emblematica vicenda è ben chiaro che le questioni di genere non troveranno mai soluzione, se non attraverso un cambiamento culturale ed antropologico totale, tanto gli stereotipi sessisti sono radicati, anche nelle società aperte, progressiste e liberali, specialmente ai livelli pubblici e dello star-system, due ambiti che hanno il potere di imporre opinioni e modificare atteggiamenti collettivi.
Kate Perry – seguitissima – viene criticata per il suo rifiuto di esprimersi sulle questioni di genere, contribuendo così al radicamento del pensiero comune che induce donne famose (specialmente quelle dello show-biz) a confermare – più o meno consapevolmente – tutti gli stereotipi di donna-oggetto, accattivanti e provocanti in abbigliamento ed atteggiamenti. In altre parole, il sex-appeal delle donne garantisce meglio del mind-appeal. Un mio amico, giovane e brillante giornalista, scrisse una confessione: ama le donne ‘cattive’, quelle mangia-uomini, esibizioniste come Kate Moss. Prima di pubblicarlo (non so se l’abbia poi fatto) mi chiese un’opinione. Gli risposi che le ‘cattive ragazze’ che lui adora sono state ‘costruite’ appunto così, che sia lo star-system o la cultura imperante: la loro trasgressività non è indipendenza, ma un potentissimo richiamo sessuale. Le ‘cattive ragazze’, come pure le gatte morte e le ‘princifesse’ (bel termine che ho ripreso dal profilo Twitter di una brava speaker radiofonica) non sono a rischio femminismo.
Sarà pur vero che per una Kate Perry riluttante (teme di perdere appeal e pubblico?) c’è una Adéle (ma anche Emeli Sande o Lady Gaga) coraggiosa e fiera. Allora è una questione di coraggio? Ancora molte donne occidentali (anche quelle famose) temono che l’essere additate quali femministe le identifichi come streghe, odiatrici di uomini, sorde alle istanze di famiglia e cura.
Una mia amica, giornalista quotata, mi rimproverò allarmata tempo fa: “Ma noi mica siamo femministe, vero?”
La parola femminista è termine sconcio, antico, arrabbiato, tanto che già le Spice Girls parlavano di Girl Power e non più di femminismo. Il termine femminista è peggio del termine ‘sgualdrina’? Dichiararsi femminista è come attirarsi una fatwa? Venderò meno dischi? Meno libri? Sarò ostracizzata dalle redazioni? Nessun editore mi pubblicherà libri? Nessun regista mi chiamerà per un film? Pochi giorni fa, in un commento ad un mio articolo su Antonio Ingroia, un lettore ha scritto che non era per nulla d’accordo con le mie opinioni, ma ciò nonostante ero una bella ragazza. So what?
Non dimentichiamo che l’accaduto di cui si narra su The Telegraph è capitato a ridosso della storica giornata in cui Inghilterra e Galles hanno riconosciuto i diritti di matrimonio (si va oltre il concetto di coppie di fatto) al popolo gay. Tendenza europea inarrestabile (e sacrosanta), cui si è adeguato anche un Governo conservatore come quello inglese.
I gay sì, ma le donne no. Potrebbe sottotitolarsi il presente op-ed. I diritti di parità delle donne sono più ostracizzati di qualunque altra vessata minoranza.
L’articolo della Henderson chiude riportando la provocazione della cantante Macy Gray, la quale obietta di non essere femminista, perché il termine configura la parità tra uomini e donne, laddove le donne sono innegabilmente migliori, più forti e più capaci. Macy Gray, secondo il pensiero corrente, non è coraggiosa: è un’incosciente.