Olga e Lia, madri della libertà | Giulia
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Olga e Lia, madri della libertà

'Olga ha compiuto cent''anni il primo gennaio, e racconta di Lia, che è morta a Niguarda il giorno della Liberazione: due partigiane, la nostra storia migliore. Di [Marina Cosi]'

Olga e Lia, madri della libertà
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14 Gennaio 2014 - 23.53


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Quando dici il destino di essere sempre la prima… Elena Rasera, nome di battaglia “Olga”, è una partigiana milanese che il primo giorno di questo nuovo anno ha compiuto il suo primo secolo di vita e lo ha festeggiato con l”allegria che ha sempre caratterizzato il suo carattere.
Nata l”1 gennaio del 1914 a Santa Giustina Bellunese in una tosta famiglia antifascista, se ne venne a Milano in città che era appena ragazza e cominciò presto a lavorare finchè nel 1935 entrò alla Olap, una grande azienda di componentistica di precisione che arrivò ad occupare oltre 3mila operai, per oltre metà donne. Produceva strumenti di precisione per radiofonia e telefonia, fondamentali nei primi apparecchi di comunicazione, ma addirittura strategici in tempo di guerra.

Lo scoppio della seconda guerra mondiale la trovò infatti lì, davanti alle macchine, ma anche nascostamente impegnata in un crescente attivismo politico. Responsabile dei Gruppi di Difesa della Donna, avvicinava le compagne, le convinceva, le organizzava in piccole unità, coordinava la rete che a sua volta distribuiva la stampa clandestina.
Un lavoraccio – ha ricordato nell”autobiografia -, rischioso ma fecondo: “Bisognava agire con oculatezza e molta prudenza. I gruppetti erano costituiti da due o tre operaie che a loro volta si collegavano con altri gruppetti. Si formava così una sorta di catena di Sant”Antonio. Intanto la stampa circolava”.

Il grande sciopero del marzo 1944, una scelta quasi eroica della classe operaia milanese e del nord, toccò anche la Olap. Fu Elena Rasera ad organizzarlo e vi aderirono 500 donne che si diedero un ruolo da “scudi umani”.
Staccata la corrente, le operaie si disposero alla testa ed ai fianchi del corteo che abbandonava la fabbrica, proteggendo l”uscita dei colleghi uomini, i più esposti al rischio d”arresto e di rappresaglia.

Ma non andò sempre bene.
Sei mesi dopo, era l”ottobre del ”44, i fascisti operarono una perquisizione improvvisa in fabbrica. Vennero trovate delle armi e fu una strage: sette morti ed una ventina di arresti.
Per Elena come per altri suoi compagni il rientro in fabbrica divenne impossibile: ormai era stata identificata come “agitatrice” e poteva venire catturata.
Entrò in clandestinità e le venne affidata una zona “calda” di Milano, quella fra Porta Romana e Rogoredo in cui insistevano molte fabbriche: la Saffa, la Bianchi, l”Innocenti, la Redaelli.
E la Olap, naturalmente.
Nominata sul campo Responsabile di zona e Caposervizio di Collegamento, Elena doveva smistare e diffondere la stampa clandestina. Il rischio era quotidiano per le staffette partigiane, che non sempre purtroppo riuscivano a passare indenni attraverso le maglie delle pattuglie.

Ancora oggi Elena ricorda la triste vicenda di Gina Galeotti Bianchi, una storia abbastanza conosciuta anche dai più giovani fra i milanesi, grazie a Roberto Sarti che ha scritto e portato più volte in scena la piece “Nome di battaglia Lia”.

La partigiana “Lia” cadde a 32 anni, incinta di 8 mesi, nel precoce giorno della Liberazione; precoce perchè Niguarda, il “suo” quartiere, si liberò il 24 aprile, con un giorno d”anticipo sul resto di Milano.

Roberto Cenati, il presidente dell”Anpi provinciale di Milano, giovedì 9 ha partecipato alla festicciola di compleanno per Elena Rasera, organizzata presso la Casa di Riposo Brichetto Gerosa (in via Mecenate 96 a Milano) che la ospita ormai da diversi anni.
Anche a lui Elena ha nuovamente trovato il modo di ricordare la vicenda di Lia; nuovamente, nel senso che Elena racconta l”episodio ogni volta che può perchè, dice, è un renderle onore.

“Incontrai questa partigiana – racconta Elena – all”appuntamento in via Carlo Farini. Appena ci siamo riconosciute, lei si è sentita male ed era molto preoccupata per il buon esito della missione che le avevo dato da compiere.

La condussi allora in un caffè e chiesi al gestore un bicchiere d”acqua. Invece lui, vedendo che stava male, le diede del surrogato di caffè.
Dopo un po” Gina, la “Lia”, si riprese e mi confessò: “Sai sono in stato interessante. Mi chiamo Gina Galeotti e sono sposata Bianchi, ma mio marito si trova in carcere”. Ci lasciammo; dopo alcuni giorni scoppiò l”insurrezione e in quella occasione incontrai una partigiana, quella che aveva avuto i collegamenti con la Lia.

Fu lei che mi comunicò la morte di quella giovane, coraggiosa staffetta, colpita da una raffica di mitra dai tedeschi nelle ore più calde della Liberazione. Quando il marito uscì da San Vittore lei e il bambino che portava in grembo se ne erano andati per sempre”.

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