Le bufale sull'occupazione femminile | Giulia
Top

Le bufale sull'occupazione femminile

Il rapporto 2019 dell'Istat: c'è un aumento di tre punti in 5 anni, ma quasi il 20% è obbligata al tempo ridotto e cresce la precarietà [di Silvia Garambois]

Le bufale sull'occupazione femminile
Preroll

Redazione Modifica articolo

17 Luglio 2019 - 08.25


ATF

di Silvia Garambois


Che la popolazione italiana più che declinare crolli (siamo a 55 milioni e grazie solo ai “nuovi italiani”, che sono più di 5 milioni), che in cinque anni sia “sparita” una popolazione corrispondente a una città come Palermo, è notizia che ha fatto scalpore.

Ma il Rapporto 2019 dell’Istat non si limita a registrare quanti siamo, quanti nascono (o non nascono), quanti fuggono (o tornano al Paese d’origine): ci racconta anche, per esempio, come nonostante i proclami governativi sull’aumento dell’occupazione femminile, in realtà dal 2013 al 2018 sia «fortemente aumentato il part-time involontario» e di come «la dinamica positiva dell’occupazione per le donne, si è accompagnata a una riduzione della stabilità e delle ore lavorate».

Ora, l’Istat dedica capitoli allo sviluppo sostenibile, ai percorsi di vita, al mercato del lavoro, al capitale umano ma – diversamente da altri anni – non dedica focus alla situazione femminile: bisogna andare a cercare tra le pieghe (tra le righe) cosa è cambiato, e come. 

E dunque Istat registra che il tasso di occupazione femminile è cresciuto di tre punti negli ultimi 5 anni ma – come abbiamo detto – in modo precario e con part-time obbligato (solo nel 2018 il 19,5 per cento delle donne occupate è in part-time involontario): ci sono circa mezzo milione di donne che si trovano in uno stato di “doppia vulnerabilità”, con lavoro a termine e per giunta part-time. C’è un altro però: «per le donne con figli tra 0 e 2 anni si stima un arretramento nel tasso di occupazione (-5,1 punti per le donne in un nucleo monogenitore e -1,3 per le madri in coppia)». Chi ha bimbi piccoli il lavoro lo perde.

Il lavoro di cura in Italia, nonostante tutte le raccomandazioni che arrivano da più parti – ultima quella del Consiglio d’Europa, resta un impedimento grave alla possibilità per le donne di avere un lavoro, una carriera. Una vita sociale. Dice Istat: “Nel 2018 il 31,5 per cento delle donne di 25-49 anni senza lavoro non cerca o non è disponibile a lavorare per motivi legati a maternità o cura, contro l’1,6 per cento degli uomini. Queste percentuali salgono al 65 per cento per le madri e al 6,5 per i padri di bambini fino a 5 anni di età”. E ancora: «Sempre la cura risulta essere il motivo per cui oltre il 28 per cento delle madri con figli piccoli, attualmente non occupate, ha interrotto il lavoro da meno di sette anni. Al crescere dei carichi familiari, dunque, diminuiscono le donne occupate e aumentano quelle che non partecipano al mercato del lavoro; per i coetanei uomini, invece, il divenire genitore non si ripercuote in maniera altrettanto evidente sulla condizione nel mercato del lavoro».

Tutto questo lavoro nascosto delle donne (a reddito zero) in realtà ha anche un valore economico, ed è elevatissimo: «si può stimare un valore dell’ordine di 71,5 miliardi di euro». Più di tre punti di PIL. Un dato che gli economisti conoscono benissimo.

Insomma, mentre si dice che la ripresa deve camminare sulle gambe delle donne e sul loro lavoro, in realtà non solo si micragna sulla spesa pubblica per i servizi di cura che permetterebbero un effetto volano, ma si sfrutta di fatto – economicamente – il lavoro “di casa” delle donne: messa così, e al di là di ogni libera scelta individuale, è peggio del lavoro nero! E, soprattutto, è indice di assoluta miopia.

Native

Articoli correlati