‘
Il debito, cavallo di Troia di una guerra sociale senza precedenti contro i popoli d”Europa, non è affatto neutro da un punto di vista di genere. Le misure di austerità imposte in suo nome sono sessuate nelle loro caratterestiche come nei loro effetti. Dappertutto si abbattono sui lavoratori e sulle lavoratrici, i/le pensionati/e, i/le disoccupati/e, i “senza” di ogni tipo (senza casa, senza documenti, senza minimo vitale…) cercando di far pagare a loro gli effetti di una crisi profonda di cui non sono per niente responsabili.
Dappertutto impongono le peggiori regressioni sociali alle popolazioni più fragilizzate, più povere e quindi maggioritariamente alle donne! E tra di esse le più vulnerabili (le madri non sposate, le giovani, le anziane, le migranti, le donne provenienti da una minoranza etnica, da un ambiente rurale o ancora donne che hanno subito violenza) saranno le più sottoposte a pressione per venire in aiuto a coloro che traggono beneficio dal debito.
Così come i piani di aggiustamento strutturale hanno estenuato e impoverito le donne dei Paesi del Sud, i piani di austerità saranno un salasso per le donne d”Europa. Gli stessi meccanismi, derivanti dalla stessa ideologia neoliberista, sono ormai all”opera dappertutto. Privatizzazioni, liberalizzazioni, restrizioni di bilancio – i piatti serviti dalle misure di austerità – tagliano con la scure i diritti sociali delle donne, accentuano la loro povertà, induriscono e aggravano le disuguaglianze tra i sessi e minano le conquiste femministe. Senza dubbio gli innumeroveli arretramenti socioeconomici testati su di loro oggi, per non far pagare ai capitalisti la crisi che hanno provocato, saranno inflitti domani a tutte le classi popolari, donne e uomini.
Tra le principali misure architettate per i governi dell”Europa, messi sotto tutela o sotto forte influenza del FMI e delle Istituzioni europee, ci sono: una riduzione generalizzata dei salari e delle pensioni, lo smanellamento della protezione sociale, la distruzione dei servizi pubblici, la rimessa in discussione del diritto del lavoro e l”aumento delle tasse sui consumi. Tutte queste politiche col tempo vanno a scapito dell”emancipazione delle donne in Europa.
I. Una diminuzione dei redditi da lavoro retribuito delle donne
Già prima della recessione, la situazione delle donne sul mercato del lavoro era lungi dall”essere ugualitaria (a quella degli uomini). L”impiego femminile resta caratterizzato da una forte segregazione donne-uomini per tipo di attività, differenza salariale, alto tasso di lavoro a tempo parziale e concentrazione nei settori economici meno remunerativi, sottovalorizzati, meno protetti dalla sicurezza sociale e informali. In queste circostanze, non è sorprendente che le donne si trovino in una situazione meno avvantaggiata per affrontare la crisi.
Più fattori, direttamente legati alla crisi del debito e alle manovre macroeconomiche correlate, premono sui redditi da lavoro remunerato delle donne:
Se, nella sua prima fase, la crisi ha colpito in pieno i settori prevalentemente maschili (bancari, costruzioni, industria dell”automobile, trasporti), i settori maggioritariamente femminili (servizi alle persone e alle imprese – ristorazione, alberghi, pulizie, ecc – i settori finanziati dagli entii pubblici e quelli del commercio) sono attualmente fortemente sotto tiro. Questo impatto della crisi sull”impiego delle donne e degli uomini, sessualmente differenziato, è rivelatore della pregnanza della segmentazione professionale (già sottolineata prima).
Le perdite d”impiego femminili sono essenzialmente imputabili al mancato rinnovo dei contratti a tempo indeterminato, alla perdita di potere d”acquisto dei/lle consumatori/trici e degli/lle utenti dei servizi, e ai tagli di bilancio nelle finanze pubbliche imposte dalle misure di austerità. Siccome le donne, in Europa, sono largamente prevalenti nei servizi pubblici (costituiscono non meno di 2/3 degli attivi nei settori dell”educazione, della sanità e dell”assistenza sociale), le restrizioni finanziarie imposte dai poteri pubblici le colpiscono in modo sproporzionato.
Un numero notevole di donne perde il lavoro, vedendo il proprio reddito già basso ancora precipitare. Ora, siccome sappiamo che oggi come ieri sono le donne ad assicurare l”essenziale delle spese per l”alimentazione, sanità e educazione della famiglia, si ha la misura di quanto questa caduta del loro potere d”acquisto colpisca i bambini e le persone anziane a carico, ma anche le donne più povere che tendono a far passare i bisogni della famiglia prima dei loro. Ciò ha un impatto sulla loro salute fisica e morale: mangiano meno e peggio, eliminano le cure preventive e palliative, per non parlare delle privazioni sulle spese per eventi culturali, sociali, letture,.. Questo scivolamento verso la precarietà le porta spesso a cercare un secondo o un terzo lavoro e a ricorrere al credito per poter assicurare i bisogni e la sopravvivienza della famiglia. Non è un caso se il microcredito si sta sviluppando in Europa, con il target privilegiato delle donne con le loro “smanie comsumistiche”.
Se le perdite d”impiego delle donne sono meno improvvise, meno spettacolari e quindi meno visibili di quelle che hanno vissuto – e vivono – gli uomini, non sono di certo meno dolorose. Infatti le conseguenze della disoccupazione sono più tragiche a lungo termine per le donne. Nella misura in cui esse hanno in media meno esperienza professionale valorizzata degli uomini e che le loro carriere sono spesso basate su lavori a tempo parziale o con contratti a termine e periodi di interruzione, le donne sono più vulnerabili sul mercato del lavoro e provano di conseguenza più difficoltà a ritrovare un lavoro.
Inoltre le inchieste attestano che le donne sono più suscettibili ad essere licenziate quando il lavoro scarseggia poichè gli uomini sono ancora e sempre considerati capofamiglia leggitimi. Uno studio a livello mondiale realizzato nel 2005 (1) rivela che circa il 40 % delle persone interrogate pensano che in questa situazione gli uomini hanno più diritto al lavoro delle donne. Mentre questo è un diritto costituzionale in molti Paesi europei.
Infine le lavoratrici migranti impiegate come domestiche o assistenti famigliari subiscono in pieno l”abbassamento del potere d”acquisto delle loro “datrici di lavoro”. Siccome queste hanno sempre meno mezzi per permettersi un aiuto in casa, sono costrette a licenziarle. Anche se il lavoro delle donne migranti non è per la maggior parte sinonimo di lavoro decente e accentua le differenze tra donne, l”immigrazione economica permette loro di supplire alla povertà che rovina la loro famiglia nel Paese di origine.
Per concludere, facciamo notare che nonostante gli effetti della crisi del debito sul lavoro delle donne siano catastrofici, con tutta la probabilità saranno sottovalutati. La realtà è molto peggio di quanto non traspaia dai rapporti ufficiali. Di fatto le persone che lavorano a tempo parziale sono escluse dalle liste di disoccupazione. In Europa, nel 2007, il 31,2 % (2) delle donne lavoravano a tempo parziale (quattro volte più degli uomini). Va detto senza ambiguità: il passaggio delle donne ad un impiego a tempo parziale è raramente il risultato di una scelta personale, essendo invece una delle conseguenze dirette della crisi…
‘